L’isola delle schegge di follia

Alienarsi dalla realtà, perdere il controllo di sé, abbandonandosi alla follia è ciò che accade quando la stanchezza lascia il posto alla malattia, e la pazzia prende il sopravvento. È di solito l’imprevidibilità correlata allo stato d’insanità mentale a spaventare la gente comune, ecco perché dai primi anni del Novecento si è cercato d’indagare la psiche nel tentativo di trovare una cura all’alienazione che sfugge alla comprensione umana. Tra i diversi approcci applicati fondamentale si è rivelato l’esperimento di Nieuw Dennendal, compiuto negli anni ’70 nei Paesi Bassi, che è divenuto il punto di partenza di un’ambiziosa ricerca artistica condotta dal Domenico Mangano & Marieke van Rooy, duo artistico formatosi nel 2014. Basato sul concetto di antipsichiatria, la sperimentazione olandese prevede la prossimità fisica tra i soggetti danneggiati e sani, che vanno a stemperare le dinamiche di polarizzazione e gerarchizzazione del gruppo malato. Verificando personalmente le derive prodotte dalla prova, gli artisti recatisi nelle Antille Olandesi per quattro mesi hanno convissuto a fianco dei pazienti della clinica psichiatrica sull’isola di Caracao e collaborando con loro nell’ambiente eterogeneo hanno realizzato il documentario When the Whistle Glares, presentato in occasione della mostra omonima ospitata presso la galleria Magazzino di Roma. Il film affronta il concetto di diluizione insito nella ricerca antipsichiatrica: partendo dal metodo repressivo adottato all’interno dei manicomi si osserva come quest’ultimo si sia evoluto verso un più libero trattamento psichiatro determinando un progresso senza precedenti. Il vento acquista un ruolo principale all’interno della terapia. Nella personale sono presenti inoltre diverse sculture in terracotta facenti parte della serie Color Draft, Mental Reef. Forme tubolari dai colori vivaci si intrecciano, sovrapponendosi, ricordando l’estetica del cervello umano; le strutture sono cave così da rendere possibile il passaggio dell’aria e del vento, trasmutandosi in strumenti a fiato. Anche qui il ricorre, stavolta accresciuto, il fenomeno della diluzione. Interessante la ricerca di Mangano e Van Rooy, si afferma come una stuzzicante scommessa, vinta dal coraggio e dall’istinto, che portano alla luce le vibrazioni di una realtà sommersa, in cui l’anomalia gioca duplicemente un doppio ruolo.

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Le ceneri di Notre Dame de Paris

Era chiamata la Forêt, ovvero la foresta, il tetto ligneo sottostante la copertura in tegole di piombo che proteggeva gli interni di Notre-Dame de Paris, cattedrale gotica situata nel cuore parigino dell’Île de la Cité, che proprio due giorni fa, il 15 Aprile, è stata vittima di un improvviso incendio divampato tra le impalcature del restauro in corso. Costruito intorno al 1220, in età medievale, il tetto nella zona della navata centrale e in quella del coro era stato realizzato con un procedimento meticoloso e complesso che aveva permesso alle travi in quercia d’intrecciarsi tra di loro, configurando un’articolata foresta di rami, da cui è derivato il suo soprannome; ed in effetti era servita un’intera selva per completare la struttura in legno, difatti nel 1160 e nei dieci anni seguenti erano stati abbattuti ben 21 ettari di bosco per poter dare avvio ai lavori. Il fuoco ha polverizzato anche la copertura in piombo applicata nel 1326. A cadere inoltre è stata anche l’elegante guglia ottocentesca la Flèche (la freccia) che si ergeva nel punto di convergenza tra il transetto e il coro. Realizzata nel 1860 durante la ristrutturazione della cattedrale ad opera dell’architetto Eugène Viollet-le-Duc, sebbene in un primo momento fosse molto criticata da buona parte della popolazione francese, era divenuta in tempi odierni emblema di Parigi. Ispirata alla guglia della cattedrale d’Orléans, la sua altezza raggiungeva i 45 metri, e la base ospitava inferiormente un ordine di bifore sulle quali si poggiavano una serie di monofore, mentre la sua sommità era presidiata da una scultura in rame, ritraente un gallo, che conservava le reliquie di Saint Denis, Santa Geneviève e un frammento sacro della corona di spine indossata da Cristo durante la Crocefissione. Le fiamme hanno mutato in cenere pezzi unici della storia dell’arte sia medievale che moderna, non è però la prima volta che la cattedrale viene ferita, ricordiamo i danni provocati dal vandalismo degli Ugonotti nel 1548, e altri causati a seguito della Rivoluzione francese durante la quale la cattedrale viene convertita in Tempio della Ragione e i suoi spazi sono adibiti a magazzino, e inoltre da sottolineare è il forte degrado in cui versa all’epoca dello scrittore Victor Hugo, che testimone del decadimento realizza un romanzo storico che cambia le sorti dell’edificio. Dopo l’incendio, oggi rimane uno scheletro, privo di pelle e debole che ha bisogno di cure. Poteva svanire in un attimo nel cinereo pulviscolo, abbiamo rischiato di perderla, ma ha resistito ed è sopravvissuta. In un’ora grave come questa diviene fondamentale conservare il ricordo di ciò che andato perso e preservare e tutelare quel che è rimasto di un’opera unica, universale ed estremamente fragile come Notre Dame de Paris.

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Helene Frankenthaler

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Campiture di colore, schizzi, macchie e linee si contendono lo spazio nelle tele dall’artista americana Helene Frankenthaler (1928-2011), esponente negli anni ’70 della corrente del Color Field Painting, la stessa in cui operava Mark Rothko. Ispirandosi alla natura, e in particolare alle acque del Long Island Sound, l’artista realizza opere uniche nelle quali l’elemento naturale si destruttura, generando la trama astratta in cui si intessono le costellazioni di chiazze e spruzzi. Porte su una nuova dimensione Altra, il fruitore può immergersi all’interno di un tessuto artificiale immateriale. Emozionanti gli scenari realizzati da Frankenthaler, invitano lo sguardo a vedere ciò che ci circonda da una prospettiva diversa.

 

Gagosian
Helene Frankenthaler: Sea Change: A Decade of Paintings, 1974-1983
dal 13 marzo – 19 luglio 2019

 

Cristallizzazione identitaria e ritmi controcorrente

 <<I vasi di Shio tendono a deviare il linguaggio – eppure, essi sono paralleli alla sua struttura sintattica.>> cit. Michael Ned

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Shio Kusaka, mostra Shio Kusaka, Gagosian Gallery, Roma, 2017

Avanti, sempre più in là si spinge la grigia ma netta linea che traccia anelli concentrici di rettangoli e di forme più morbide, sinuose, come onde di un delicato mare primaverile; l’occhio va per strade familiari eppure estranee allo stesso tempo e l’incanto ha il sopravvento sulla ragione, ipnotizzate sono così ora le pupille che si dilatano ammirando lo spettacolo che incrocia la loro vista nelle fragili e metodiche linee che si increspano annaspando come in un laghetto nei lavori dell’artista giapponese Shio Kusaka, che con pazienza e dedizione lavora le sue creature con una tecnica magistrale, ottenendo risultati straordinari. Nella personale di Kusaka ospitata alla Gagosian di Roma le opere sono esposte impazienti lungo un basamento ondulato che serpeggiando le scuote ancora di più nonostante il movimento sia già molto sottolineato dall’alternanza vivace delle diverse e varie forme e dimensioni che compongono l’insieme e dalle linee che infestano copiose il loro corpo scultoreo, tutto ciò contribuisce a evidenziare ulteriormente la forza dinamica dei vasi che nonostante la peculiarità del materiale con il quale sono modellate (la porcellana, fragile ma pesante), rivelano la loro sorprendente vivacità.

20180405_124517.jpgLa serie dei vasi più grandi si snoda nella sala centrale ovale: alti, bassi, gonfi come palloni o snelli come colli di cigno, le forme più bizzarre si susseguono mescolandosi ritmicamente in un’alternanza di colori tenui pastello che non stancano l’occhio con la monotonia e la pacatezza, ma che piuttosto l’aiutano ad essere ancora più attento alle differenze, notando ogni più piccola sfumatura che intercorre tra una scultura e l’altra, e ciò diviene utile anche per il discernimento dei motivi che si creano sullo specchio cristallino delle stesse opere; nella porcellana sono infatti disegnate forme geometriche che a seconda del loro modello identificano ogni scultura, regalandogli un’autentica identità di oggetto particolare e unico. Finalmente si riesce a intravedere una parte dell’intenzione che spinge Shio Kusaka a creare i suoi piccoli vasi e anche la serie di sculture più piccole che accolgono il fruitore nella prima sala, diviene più chiara a chi la intravede inizialmente. Nel colore monocromo bianco e nelle forme ridotte questi piccoli gioielli forse più dei loro variopinti e grandi fratelli riescono a entrare in connessione con chi li guarda, ma solo dopo un passaggio intermedio – perdersi nella magnificenza delle grandi dimensioni- dopo ciò si può apprezzare a pieno l’astrattezza e la cura nel dettaglio messa maggiormente in evidenza in queste più oculate opere dove la mano si muove più attenta e la mente presta maggiore attenzione per non rovinare quelli che sono dei piccoli capolavori di manualità.

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Il ritorno al minimalismo in queste opere è pressoché sbalorditivo e il rigore compositivo è altrettanto centrato da Kusaka che può essere considerata come una delle protagoniste assolute della nuova stagione artistica giapponese. Non solo ritorno al minimalismo ma ancora un rimando alla Pop Art e ai suoi temi come la riproducibilità dell’opera d’arte e la questione di cosa possa essere considerato effettivamente arte, ecco quindi l’utilizzo delle forme comuni e più disparate che ricalcano il pensiero di un’arte popolare e consumistica; nonostante la figurazione in forme esistenti come quelle del vaso, l’astrazione primeggia suprema nei lavori dell’artista. Le forme geometriche richiamano l’ordine naturale del mondo; citazione fibonacciana, ricordano gli albori della Storia con l’arte delle civiltà antiche come quella greca che modellava il suo pensiero sulla vita e il mondo nelle terracotte di argilla (anche qui la geometria era fortemente utilizzata, schematizzando lo stesso pensiero della cultura del tempo). Un ritorno al passato ma con la consapevolezza dell’attualità del gesto, astratto e stilizzato in comunione con il pensiero della società del post-umano. Pezzi unici e vasi di Pandora queste opere fondono in loro l’idea di identità, di comunicazione astratta, e di evoluzione aprendo nuove questioni sulla comprensione dell’opera stessa astratta, il rapporto tra comunicazione e incomunicabilità; c’è da pensare che quello che a un primo sguardo sembra un semplice oggetto di arredamento che può essere reperito dovunque sia invece non solo opera di un pregiato artigianato, ma anche creazione d’arte poiché pensata e voluta al mondo dall’artifex. Kusaka imprime il soffio vitale in ogni sua creatura di porcellana e questo le rende organiche, dinamiche e atemporali. Sarebbe il caso di tenere d’occhio un’artista che riesce nonostante il corso dei tempi a dare nuova linfa all’ibrido dell’arte figurativa e astratta.

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L’arte artificiale e l’arrivo dei raggi dalle luci al di là dell’orizzonte digitale

<<Ci piace lavorare con l’ovvio, il banale. Questi sono uomini e donne, età, ferocia e civiltà, povertà e benessere, servitori e dominatori, ecc…>> cit. AES+F

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Dump Type, mostra DigitalLife2017, Palazzo delle Esposizioni, Roma, 2017

Nuove frontiere si aprono quotidianamente spontanee e naturali come rari germogli selvatici, di fronte ai nostri occhi ancora restii ed increduli ad accettare possibilità ormai evidenti e inimmaginabili, contro ogni senso razionalista che mira a soggiogare il ruolo dell’immaginazione nella costruzione e nella visione di un mondo in progressiva espansione; una realtà dove l’impossibile si tramuta in possibile, e dove ogni desiderio e ogni pensiero si realizzano senza più la minima difficoltà, grazie a sofisticate macchine e ad un progresso senza precedenti. Il regno dei medium si allarga e così l’arte ricostruisce il suo volto restaurando le sue nobili rughe; una particolare luce artificiale si irradia nelle sale del Palazzo delle Esposizioni a Roma, dove dal 7 ottobre al 7 gennaio, saranno esposte sei installazioni di artisti e collettivi internazionali, rappresentanti-fiaccole dei visionari del nuovo universo immateriale.

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Disturbi elettronici e particelle di luce si susseguono in un rocambolesco spettacolo, dove la scienza e la tecnica padroneggiano supreme. In particolare si può notare una singolare attrazione per la luce che è fattor comune e dominante nei vari lavori. La luce artificiale vince su quella naturale, anche se la presenza di opere come quella di Ivana Franke Instants of Visibility sembra quasi voler contraddire questa affermazione, intonando un canto d’amore per una luce più primitiva e naturale, quella stessa che fu all’origine del tutto; stelle dal profondo nero si apprestano al loro viaggio intergalattico per avvicinarsi alla Terra, curiose di conoscere l’essere umano; luce di conoscenza si porta accanto al nostro petto entrandoci dentro e oltrepassandoci. È un viaggio e una conoscenza inaspettata, e la cosa più strana è pensare che quella luce stellare sia in realtà artificio di lampade e cilindri di tulle che permettono ai raggi emessi di assumere la giusta direzione. In altri lavori la luce invece acquista un’aurea più scientifica come nell’installazione site specific del tedesco Robert Henke Phosphor, dove luminescenti scie verdi e viola si rincorrono senza interruzione su un terreno nero come la pece che è spazio altro, ignoto e inconoscibile. Le segmentate scie planano come fulmini, scandendo ogni secondo che batte l’orologio biologico della vita. Opera delicata e affascinante, attraverso la visione della luce ultravioletta che muore e rinasce sulla superficie coperta di fosforo ogni volta in modo differente, conduce il fruitore a interrogarsi sulla questione del tempo e del suo scorrere.
In Memorandum or Voyage opera-video del collettivo Dump Type l’accensione e lo spegnimento del video che ripercorre le varie perfomance attuate negli anni dal collettivo, creano contrasti molto significati, dove luce e ombre si scontrano in uno scambio simbiotico che simula una lotta dove ogni performance sovrasta l’altra e viceversa; un moto ondoso di continuo disturbo e interruzione, poiché nella vita non si cammina mai in rettilineo ma sempre in zigzagando da una parte all’altra ricercando la linearità che non fa parte di essa e che il video riesce a ricordare esattamente con la linea che intermezza lo svolgersi delle performance, elemento d’unione e segnale di fine come durante un decesso.

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Cos’è il progresso se non il trovare escamotage e soluzioni innovative a problemi di difficile risoluzione? È in ciò che si identifica una mostra come quella di DigitalLife, che grazie ad una spasmodica intraprendenza e continua sperimentazione riesce a dare vita a miracoli e visioni in grado di cambiare il piano dell’orizzonte visibile; la scienza e la tecnica divengono parte integrante dell’arte e il futuro diviene già presente dando un esempio del suo avvenire ineluttabilmente, come per esempio fa pensare Allegoria Sacra video-opera del collettivo russo AES + F nella quale creature mitologiche, ferventi fedeli e religiosi musulmani e cristiani continuano una lotta statica e arida nelle vaste lande desertiche che ricoprono un mondo in decomposizione, come dimostrato dai ruderi dell’aeroporto, ex non luogo per eccellenza. Immagine futuristica apocalittica o forse già presente riflette e denuncia la condizione nella quale la Terra versa. Un tempo lontano e un modo di concepire e di fare arte vecchio e stantio vengono rivisitati per dare spazio alla nuova era, che nulla dimentica ma accumula con enorme voracità, fagocita ogni briciola di cultura e intuizione per rivelare al fruitore gli estremi del mondo che oggi vive, rendendolo critico attivo di una realtà molteplice, ambigua e frammentata in modo da renderlo capace di agire di fronte ad un simile contesto e in un certo senso a renderlo in grado di prendere delle scelte in un universo colmo di possibilità. L’arte digitale perde il suo abito pieno di fronzoli e luccichii di innovazione e spettacolo e diviene severa e attenta insegnante, assumendo un potere capace di  sconvolgere irrimediabilmente il pensiero critico dell’odierno essere umano, nuova chimera digitale e figlio dell’arte virtuale.

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Balula, le ombre svelatrici e le forze incrociatamente dipendenti

<<La combustione e la produzione di carbone sono responsabili delle più antiche manifestazioni nel fare arte. Anch’io tengo occasionalmente un fuoco addomesticato quando fumo una sigaretta e mi piace pensarlo come una torcia portatile e giocare con l’intensità della brace e con le sue variazioni di colore.>> cit. Davide Balula

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Davide Balula, mostra Iron Levels, Gagosian Gallery, Roma, 2017

Camminando vicino ai muri dei palazzi durante una giornata particolarmente soleggiata ci si può facilmente accorgere di non essere soli, e di avere sempre accanto quel fedele nero compagno, chiamato ombra, che ci scorta costantemente nelle ore solitarie. L’ombra è forma magica e satellite del nostro vivere quotidiano, essa accompagna ogni singolo oggetto nel percorso della sua vita, e così come essa si dimostra leale scorta ogni giorno si riesce a riscoprire il suo ruolo originario proprio nel lavoro di Davide Balula, artista di origine portoghese e naturalizzato francese, che ne mostra le immense ed infinite possibilità di espressione in una mostra come quella di Iron Levels ospitata presso gli spazi della Gagosian di Roma. Qui l’ombra non è intesa nel suo senso più comune, ma viene invece interpretata nel ruolo di calco negativo e di impronta che lascia la sua traccia dopo l’inevitabile contatto. È ciò che resta dell’accaduto, perciò è conseguenza di un’azione e di evento così come le ceneri dopo la combustione.

 

Tele grigie tempestate di invasori curiosi sono quelle proposte da Balula con la serie dei Burnt Paintings che vanno ad occupare la sala centrale della galleria. In questi l’idea di ombra viene data non solo dall’impronta che lascia il contatto diretto con il carbone, ma anche dai resti stessi del fenomeno fisico della combustione; questi due elementi si alternano così in un carosello ciclico, perennemente in contrasto e perennemente in armonia, poiché legati indissolubilmente dalla natura tra di loro estremamente possessiva. I segni neri divengono esploratori in un universo perturbante, che anche se potrebbe apparire nuovo in realtà è conosciuto molto bene dagli stessi; sono il processo chimico e quello fisico che legano la materia negli stati del suo essere, l’artista mette così in evidenza la relazione che intercorre tra le varie fasi e tra i cambiamenti che avvengono durante tutta la durata del processo. Esperienza estraniante si pone come occasione per poter familiarizzare con cose che abbiamo dimenticato, con il gioco di forze e destini che si susseguono ciclicamente in natura. Sicuramente quello che Balula riesce a mostrare è la dinamica della trasformazione e di quel che vi è dietro le quinte della stessa, ciò è ben visibile anche nell’opera Untitled posta proprio all’inizio del percorso espositivo: un metal detector insolitamente legnoso si pone come un guardiano attento all’ingresso dell’esposizione; porta alchemica immerge il visitatore in un mondo altro, al di fuori dai normali schemi del tempo lineare, controllando però prima colui che si appresta a penetrare nel nuovo impero, un grande fratello che rivela l’insensatezza di qualcosa di estraneo all’interno degli indumenti portati giornalmente, il metallo viene smascherato come un nemico decisamente insolito, poiché è corpo estraneo al corpo stesso. Con Air Between Fingers invece l’artista si mette nella condizione di indagare l’assurdità che è implica nella relazione instaurata tra tempo e spazio; qui la vicinanza e lo spazio sono percepiti distopicamente tramite un video nel quale due dita tentano di toccarsi ripetutamente, venendo a contatto solo alcune volte quando la distrazione lo concede. Prossimità e lontananza giocano quasi fossero due vecchi compagni di classe il gioco della casualità e in questo esplorano la loro dimensione di paradosso. Idle Hands fa invece scoprire al fruitore il vero significato del reale in cui abita giorno per giorno, conducendolo durante un attimo inaspettato nella dimensione della concretezza della vita, attraverso un’ opera che si consegna direttamente nelle mani del visitatore come dimostrano le sfere di metallo che una volta poste nei convessi palmi ridonano la vista a chi non vede, impostando le coordinate essenziali che caratterizzano la vita: il suo peso e la sua vivida durezza. La gravità acquista forma e nonostante la sua invisibilità, proprio in questo lavoro essa come un pugno nello stomaco rivela la sua continua presenza.

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Fisica, chimica e pensiero liquido intersecano i loro assi sull’asse cartesiano per dar vita a delle opere di estrema profondità e sensibilità. La delicatezza che ne deriva diviene cifra stilistica di un’artista che si è sempre dimostrato molto attento a concetti come quelli di percezione e leggerezza. Non bisogna dimenticare infatti gli esperimenti-performance intitolati Mimed Sculptures condotti in Svizzera nel 2016, che ricreavano le sculture di artisti famosi tramite l’imitazione mimica delle stesse nella trasparenza impalpabile dell’aria. Diversamente da questo caso in Iron Levels il senso della percezione decide stavolta di legarsi non alle emozioni ma alla scienza, materia oggettiva di analisi del mondo, e nonostante ciò essa non perde la sua unicità e le sue peculiarità, anche in questo percorso infatti si possono riscontrare le condizioni essenziali dell’arte empirica di Balula; un’arte che insegna a riconoscere la parte più nascosta dietro la realtà visibile ed a interrogarsi sulla sua funzionalità, sul suo modo di sorreggere quello che vediamo, e che inoltre mette in evidenza la processualità degli iter e la loro essenzialità per la vita svelando la meraviglia intrinseca del sistema all’origine di tutto.

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Sally Mann e il sentimento intramontabile

 

“Usare la fotografia come strumento di memoria è probabilmente un errore perché penso che le fotografie in realtà abbassino la tua memoria in certi modi una sorta di modo per togliere agli altri sensi: il senso dell’olfatto,  il gusto, il tatto quel genere di cose” cit. Sally Mann

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mostra Remembered light: Cy Twobly in lexigton, Gagosian Gallery, Roma, 2017

Affezionarsi è benedizione e maledizione simultaneamente; dono ed arma può aprire le porte di un vero paradiso impensabile oppure condurre alla perdizione più assoluta, sconvolgendo vite monotone e perfette. Un verbo riflessivo che indica quanto si possa sentirsi legati a qualcuno o a qualcosa, costruendo particolari legami, che si annodano e si intrecciano come i fili di una ragnatela; resistenti ma mortali questi come l’affezione nei confronti di qualcuno, possono avere una vita molto lunga o decisamente breve: il sentimento può durare anni o una vita ed insperatamente riuscire ad andare anche oltre questa, mentre altre volte svanire così com’era nato nell’arco di un battito di ciglia. Charlie Chaplin diceva <<Ci vuole un minuto per notare una persona speciale ,un’ora per apprezzarla, un giorno per volerle bene, tutta una vita per dimenticarla>>, e non potevano esistere parole migliori per descrivere l’essenza di tale delicato processo. Quando il sentimento dura, si intravede la sua stessa verità che diviene costante nella vita, e va ad influenzare ogni aspetto di questa, anche quello creativo. Così l’artista americana Sally Mann, crea un percorso fotografico che ripropone uno spaccato della vita dell’amico artista scomparso Cy Twombly nella mostra Remembered Light: Cy Twombly in Lexington, ospitata ora presso la Gagosian di Roma.

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Nella sua fotografia Sally conduce il fruitore in mezzo a sculture, oggetti di uso quotidiano, e strumenti di lavoro che hanno fatto parte della vita di una delle personalità più significative dell’espressionismo astratto americano. Cy towbly è stato amico e mentore per la Mann, e questo legame indissolubile viene raccontato delicatamente dalle foto immutabili della Mann, che ammiccano ad uno stato di estraniamento e nostalgia tipico della metafisica di De Chirico. Sono immagini statiche, fisse ed immobili nello spazio recintato della pellicola quelle di Sally, che emano un tepore particolare, una nota di calore apprensivo e quasi materno. La nostalgia permea inevitabilmente ogni oggetto dietro all’obiettivo che cosciente posa il suo occhio sui resti ancora visibili e concreti della vita di un uomo d’arte come Cy nel suo studio di Lexington. La luce soffusa che penetra piano, quasi come volesse abbracciare lo studio e ciò che vi è gelosamente custodito, tramuta la realtà e la concretezza dei materiali in sostanze eteree che ricreano l’atmosfera immaginifica del sogno: dove tutto sembra perdere i contorni, questi sfociano in una costante ed evidente sfumatura, elemento caratterizzante della terra di confine tra il reale e l’irreale e tra il ciò che è e il ciò che è stato. Il dialogo tra le due sfere temporali è molto forte e inteso, e ciò dà spazio anche ad una memoria che si misura con il peso del tempo che la costituisce.

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Residui e rovine di un mondo in abbandono, che raccontano visivamente la propria storia; amati, odiati, usati o trascurati, sono presenze materiali del tempo passato che ora non hanno altro scopo se non quello di narratori erranti nel tempo sospeso. Il ricordo si fonde con l’immagine frizzante dell’oggi e da questa felice unione nasce il sorprendente senso di malinconia che traspare dalla pellicola fotografica. Un mondo lontano ed un modo di vivere quasi dimenticato vengono a trovarsi a contatto con la dura concretezza della corteccia del presente; l’urto che si sprigiona non è incidente ma piuttosto improvvisa positiva coincidenza che porta ad un nuovo modo di esperire la negativa circostanza della perdita. La forza rigeneratrice derivata dalla consapevolezza invita alla calma e diviene portatrice del germe di una nuova e spiazzante serenità. Sally riesce così ad annullare la tristezza fondendola con l’idea di speranza in un tempo futuro, che guarda non solo al presente ma anche al passato. E’ un omaggio sincero quello della Mann che nella mostra Remembered Light: Cy Twombly in Lexington stupisce tutti gli astanti increduli e scettici sul potere che può acquisire un ricordo se maneggiato con cura e attenzione, facendolo divenire emblema di rinascita.

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Piero Gilardi, l’artificio e la natura

“Come ci insegnano anche le più recenti ricerche scientifiche, l’uomo nel corso della sua evoluzione si ibrida continuamente con ciò che è differente. Questa ibridazione ha perciò contribuito alla stessa evoluzione dell’uomo. Se ci pensiamo, per millenni questo ha voluto dire attuare uno scambio.” cit. Piero Gilardi

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mostra Nature Forever-Piero Gilardi, Maxxi, Roma, 2017

Relazionarsi non è mai facile, eppure è nella relazione che nascono e si fanno strada, i fiori che poi sbocceranno; boccioli di conoscenza si affacciano alla vita e si aprono ai raggi del sole che illumina radioso i petali delicati del nuovo sapere. L’incontro dona una ricchezza insperata, talmente preziosa, che sembra quasi l’aurea di un’illusione. <<La felicità è vera solo se condivisa>> così commentava il protagonista Christopher McCandless nell’epilogo del film Into the Wild-nelle terre selvagge; e questo lo sa bene Piero Gilardi che per anni ha creato un’arte portatrice dei semi della relazione e dell’incontro, interessato così come è sempre stato all’antropologia e alla politica, campi del sapere creati dall’essenza intrinseca del vincolo e del rapporto. Il Maxxi decide così di omaggiare con la mostra Nature Forever. Piero Gilardi, un’artista che ha segnato un’intera epoca dagli anni ’60 fino ad oggi, e che attraversando i decenni non ha mai perso quella scintilla, che infonde l’anima alla sua opera, e ciò è evidente proprio nelle opere allestite all’interno della mostra.

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Con la serie Tappeto-natura l’artista riproduce ambienti naturali come: il contesto marino con onde che infrangendosi tra di loro spruzzano schiuma bianca ed eleganti gabbiani che le sorvolano; poi si trovano campi di rigogliose zucche arancioni e cocomeri che sembrano uscire da una fiaba; e ancora terreni grigi ricoperti di pietre e sassi di varie dimensioni, e poi suoli immersi nell’aria boschiva con tutte le foglie che riposano su questi. Tutti questi ambienti sono riproposti tramite sculture rasoterra tridimensionali, che somigliano ad altorilievi traslati dal piano verticale del muro al piano orizzontale del pavimento; questo spostamento di piani crea la magia: gli ambienti si sviluppano esattamente come avviene in natura partendo dal terreno, eppure nonostante la verosimiglianza c’è qualcosa che rimane al di fuori della perfetta illusione, un elemento che stona e che inserisce tutto il realismo nella finzionalità della visione. È il materiale con il quale vengono realizzate le opere, il poliuretano espanso che definisce i campi tra reale e finzione facendoli collassare l’uno sull’altro. Le due dimensioni si mescolano, e da esse ne sorge un’illusoria apparenza perfetta, che solo il fruitore che si relazione da vicino con l’opera stessa può smascherare. L’interazione diventa la chiave di lettura delle opere, che strizzano un occhio ai temi dell’ecologia. Altra serie di opere fondamentali sono le maschere e costumi con tratti buffi e divertenti, che sfidano le logiche di una cattiva politica, inscenando gag e situazione assurde che però sono immagini rappresentati della condizione nella quale si verte in Italia. Si può così trovare un Renzi che si lancia senza paracadute su un tappetto elastico con su scritto UNION; uno squalo divora soldi e uomini; due corvi che sul petto hanno inciso uno in lettere verdi fratelli d’italia lega e l’altro in caratteri rosa naziskin; tre mostri pannocchia che alzano arrabbiati un manifesto con su scritto O.M.G. FREE!; il carosello che in una spirale centripeta narra del terrorismo e dell’immigrazione; la mela che porta a spasso il famelico bruco giallo; berlusconi attorniato da scope che spazzano la parola lavoro; e poi per concludere una selezione di capelli-copricapi che sempre riprendendo il tema della maschera si diversificano in forme totemiche. Ultimo pezzo della collezione un’installazione site-specific che ricostruisce una foresta artificiale dove gli alberi danzano quasi scollati dal resto del mondo e con movimenti frenetici ballano una danza inquietante.


Il rapporto tra natura e artificio è sempre presente nella poetica di Gilardi, che fa coesistere questi due aspetti in un intricato gioco di apparenze; difatti il fruitore sente di essere immerso in una realtà finta, ma comunque per la sua rappresentazione realistica si pone il dubbio se quell’artificio che egli vede non possa essere vero in un certo senso, forse anche più reale del mondo che abita ogni giorno. Le morbide forme di poliuretano donano un senso di sdoppiamento e scollamento con la realtà effettiva. L’artista diviene artefice di un mondo fittizio che però assomigliando così tanto al mondo reale si pone nelle veci di sostituto del reale. L’irreale domina così la sua controparte e rimane sempre un passo avanti ad essa che nel frattempo si rende visibile ma al contempo si allontana dal fruitore che non riesce più a coglierne la vera essenza. Il perturbante diviene sentimento condiviso nella visione e nell’azione esperienziale delle opere di Gilardi, che con la loro familiarità ed estraneità ai due mondi cui appartengono (artificiale e reale), innescano questo processo psichico nella testa della spettatore che non è solo assorto passivamente, ma si fa esistenza partecipe del nuovo mondo, per capirne i misteri e gli inganni.20170614_143239